“La guerra
di liberazione non è un’istanza di riforme, ma lo sforzo grandioso di un
popolo, che era stato mummificato, per ritrovare il suo genio, riprendere in
mano la sua storia e ricostituirsi sovrano” [1]
A 100 anni
dalla nascita di Fanon alcune brevi, forse inutili, considerazioni.
Se c’è un
atteggiamento che in questi anni mi ha particolarmente colpita è l’incapacità
di alcuni ambienti in solidarietà con la Palestina di comprendere il
significato della lotta palestinese. La rabbia palestinese non è un sentimento
che il pubblico occidentale, in lacrime, commosso di fronte alle immagini dei
corpi dilaniati palestinesi, può accettare. La rabbia del colonizzato è
incomprensibile, fuori dalle regole dell’accettabilità, è animalesca per
natura. Un sentimento che può generare mostri, e che ci ha attaccato addosso
l’etichetta di incivile, barbaro, dannato. Non è la scoperta dell’acqua calda,
né la pretesa di teorizzare qualcosa che è già stato scritto da militanti e
intellettuali impegnati nelle più disparate tradizioni anticoloniali, ma
l’atteggiamento paternalista, colonizzatore e razzista messo in campo da chi
“ti vuole difendere” è ciò da cui dobbiamo stare alla larga.
Utilizzo
quindi queste righe per diversi motivi: primo, su tutto, dare sfogo alla mia
frustrazione, da palestinese, italiana, militante di un’organizzazione
palestinese in Italia. In secondo luogo, per condividere con chi leggerà alcuni
dei pensieri che hanno abitato i nostri corpi, spesso in tensione e arrabbiati,
spesso incapaci di trovare nello sguardo del solidale un alleato di cui
fidarsi.
Le lotte
anticoloniali che hanno caratterizzato la metà del ‘900 – stesso periodo in cui
si ufficializzava l’istituzione coloniale in Palestina, hanno attraversato
diverse fasi, tradizioni, pratiche, riflessioni politiche, momenti in cui le
scelte dei colonizzati hanno assunto forme e modalità adatte alle contingenze.
Allo stesso modo, pensare che i palestinesi abbiano prediletto una forma di
resistenza all’altra vuol dire non essere in grado di leggere la situazione
coloniale, né di entrare in connessione con la prassi anticoloniale. Spesso,
negli ambienti “di sinistra”[2] – bianchi
non per colore della pelle ma per postura politica – si commette l’errore di
non comprendere la varietà delle forme di resistenza e la loro fluidità. In
Palestina durante la Grande Rivolta del 1936-39 si sono sperimentate pratiche
tra le più disparate tra loro, lo sciopero (durato 6 mesi), assalti armati alle
pattuglie inglesi, boicottaggio del pagamento delle tasse, organizzazione della
resistenza armata nelle colline.
Tutto
insieme.
Perché
scrivo tutto ciò? Perché come palestinesi esigiamo il diritto alla nostra
opacità. Opacità che si esprime nella mancanza di volontà nel dover negoziare
continuamente con l’ambiente “solidale” italiano la nostra postura politica, le
nostre rivendicazioni e anche il logorante esercizio di rivendicare il nostro
diritto alla resistenza. L’opacità diventa quindi una necessità contro
l’imposizione della pratica rivelatoria per cui per essere ascoltati siamo
costretti a svelare le nostre fragilità, il nostro dolore e a fare un racconto
personale ed emotivo della catastrofe palestinese. In questi anni, la nostra
soggettività politica è stata quindi relegata ai margini, resa voce
inascoltabile, aliena, risultato del fatto che il pubblico occidentale –
soprattutto quello delle sinistre liberali e non – non si è mai liberato della postura
orientalista e colonizzatrice per cui devono decidere per noi. Da qui deriva un
atteggiamento paternalista che infantilizza la soggettività palestinese,
accettata sono nella sua dimensione sofferente. La mancanza di spazio per il
processo di soggettivizzazione palestinese ha diversi tipi di conseguenze; una
delle più critiche è l’impossibilità per i palestinesi di poter elaborare un
piano politico. Se non lo possiamo fare noi, lo faranno gli altri, i non
palestinesi. Gli europei, gli occidentali. Infatti, come dimostrato dalla
storia della lotta di liberazione del nostro popolo, dalla fase degli accordi
di Oslo a quelli di Camp David, alla richiesta di disarmo avanzata alle fazioni
della Resistenza durante l’invasione israeliana del Libano nel 1982, sono
sempre forze esterne a produrre l’elaborazione politica di ciò che è
auspicabile, praticabile e realizzabile per il progetto palestinese.
Oggi con
Gaza si riproduce la stessa dinamica.
L’orientalismo
di ritorno è quindi quell’atteggiamento per cui non solo lo spazio a noi
deputato è quello personale, dell’eterna vittima, del 5×1000, ma anche in
questo caso la modalità con cui esprimiamo il nostro dolore e lutto deve
passare il vaglio dello sguardo dell’altro rispetto a noi. La rabbia,
sentimento generato dall’esperienza dell’ingiustizia sistemica e prolungata nel
tempo e nello spazio, della volontà di vendetta, è il motore che, insieme ad
altri sentimenti, genera volontà e coraggio. Il razzismo interiorizzato, anche
di chi frequenta l’ambiente della generica solidarietà con la Palestina, si
esplicita attraverso forti prese di posizione che criticano la nostra
ossessione per il martirio. Ci viene detto che il progetto
palestinese, secolarizzato, comunista, della Palestina Rossa (ma
dov’è questa Palestina Rossa? Parlate proprio voi che avete trasformato
l’internazionalismo anti-imperialista in carriere nelle ONG?), non prega i
martiri, non li commemora. Ciò è ancora più sorprendente quando pensiamo al
ruolo dei martiri nella memoria partigiana della Resistenza italiana. E quindi
piazza dei martiri sì, ma se sono bianchi.
La
Rivoluzione non è un pranzo di gala, ma un bagno di sangue.
Come
palestinesi impegnati nel lavoro di ricerca accademica, militanti di
organizzazioni della diaspora, non abbiamo mai trovato disponibilità a poter
esprimere i nostri pensieri e analisi su giornali, riviste italiane. Il nostro
spazio è all’estero, nei media arabi o nelle diaspore dei barbari che ci
assomigliano. Al contrario, le voci degli ebrei sionisti liberali trovano ampio
spazio di espressione nella maggior parte delle testate di “sinistra”; non è un
caso. La voce dell’ebreo critico verso l’occupazione, alcuni garantiti anche
dal passaporto israeliano, che pubblica un articolo alla settimana tra una
conferenza con esponenti del PD ed ex primi ministri israeliani (noi ci
ricordiamo bene le azioni di “pace” con il fosforo bianco di Olmert), e una
visita a Massafer Yatta, ma con la casa di famiglia a Jaffa espropriata a
qualche palestinese nell’ormai lontano 1948 (che pesanti voi palestinesi che
siete ancora fermi nel passato!) o che addirittura si arrogano il diritto di
spiegarci Said e Fanon (audaci!). Se quindi noi, palestinesi, arrabbiati,
inascoltabili, fuori dai confini dell’accettabilità non riusciamo a leggere la
fase del nostro tempo, lo facciamo fare a chi da intellettuale impegnato,
militante, ha svolto questa funzione prima di noi. Perché nella nostra
riflessione collettiva il ruolo del pensatore, dello studioso non può e non
deve rimanere slegato dal lavoro di lotta, organizzativo e militante (lo so,
suoniamo così novecenteschi, tant’è!). Partiamo da una domanda, la stessa che
Césaire si poneva durante la conferenza della Négritude nel 1987 a Miami:
“Quanti di me sono morti?”. Cerco di rispondere a questa domanda chiedendomi
“quanti di noi sono ancora vivi?”. E se davvero non era previsto che
sopravvivessimo, ora che siamo sopravvissuti, cosa facciamo con questa
vita che abbiamo in mano? Per me la risposta è semplice: lottare.
Forse
dovremmo dare vita alla nostra Palestitude, crearci uno spazio
nuovo, dove praticare il diritto all’opacità di cui scrivo e quello della
rappresentazione quando ne abbiamo voglia, nelle modalità in cui desideriamo.
Parliamo di nuovo di Fanon, perché? Quest’anno cade il centenario dalla sua nascita
e tantissimi spazi sociali, organizzazioni e accademici hanno organizzato
iniziative dedicate alla sua memoria e all’eredità del suo pensiero politico.
Alcuni di questi, gli stessi che permettono al militante martinicano di abitare
i loro spazi, hanno negato la possibilità ai membri dei Giovani Palestinesi
d’Italia di partecipare a delle iniziative di divulgazione sulla causa
palestinese a causa del loro posizionamento “estremo” in riferimento alla
lettura politica del 7 ottobre. Io stessa sono stata costretta a ritirare la
mia partecipazione a uno di questi eventi spiegando che non posso scindere il
mio impegno militante da quello di scrittura e che, per me, i due vanno di pari
passo.
Fanon, che
credo di aver compreso semplicemente perché leggo la storia di lotta del mio
popolo, nel suo articolo “Gli intellettuali e i democratici francesi di fronte
alla Rivoluzione algerina” ci aiuta a spiegare alcune delle contraddizioni che
oggi emergono nel rapporto tra il movimento di liberazione palestinese e la “sinistra”
liberale e non italiana.
Parlando di
coscienza nazionale Fanon scrive: “appoggiare senza riserve le
rivendicazioni nazionali dei popoli colonizzati è uno dei primi doveri degli
intellettuali, per i quali in questo caso si adopera il termine “intellighenzia” e
raccontando l’inizio della fase della lotta armata algerina contro le forze
coloniali, analizza il rapporto tra la sinistra democratica francese e la sua
incapacità di comprendere la portata delle azioni algerine. Specifica:
“il popolo,
quello vero, gli uomini, le donne, i bambini, i vecchi del paese colonizzato si
rendono conto senza sforzi che esistere nel senso biologico della
parola equivale ad esistere in quanto popolo sovrano. La sola soluzione
possibile, l’unica via di salvezza per questo popolo sta nel rispondere il più
energeticamente possibile al genocidio perpetrato contro di lui.”
Queste
parole mi risuonano profondamente perché riassumono esattamente ciò che
proviamo a rivendicare da tempo: la nostra via di salvezza contro l’eliminazione
biologica della nostra presenza è la lotta. Come popolo sovrano, non come
popolo sottomesso alla volontà delle potenze coloniali e alle decisioni delle
loro istituzioni (Nazioni Unite, Unione Europea…) che ci concedono a
parole le briciole della nostra terra. Parlando della guerra in
Algeria, Fanon si sofferma sull’atteggiamento della sinistra francese nei
riguardi di un’azione militare contro dieci civili francesi uccisi in
un’imboscata e afferma:
“tutta la
sinistra francese con un sussulto unanime grida: non vi seguiamo più. Si
orchestra la propaganda, s’insinua nelle menti e affossa convinzioni di per sé
assai vacillanti. Compare il concetto di barbarie e si stabilisce che
in Algeria la Francia combatte la barbarie”.
Non siamo di
fronte alla stessa dinamica? Sostituiamo Algeria con Palestina e Francia con
Israele, non stiamo forse parlando degli stupri del 7 ottobre e dei presunti
bambini decapitati? Noi abbiamo smesso di essere compresi quando abbiamo smesso
di morire inermi, vittime perfette, quando abbiamo deciso – a più riprese nel
corso della nostra centenaria lotta di liberazione – di alzare la testa contro
il colonialismo.
“Dal 1956
gli intellettuali e i democratici francesi di tanto in tanto si rivolgono
all’FLN (…) Consigli e critiche si spiegano con il desiderio mal
represso di guidare, orientare finanche il movimento di liberazione
dell’oppresso. (…) Lungo questa linea di oscillazione, i democratici
francesi, che sono al di fuori della lotta o che manifestano la volontà di
seguirla dal di dentro e magari parteciparvi in qualità di censori,
consiglieri, per incapacità o rifiuto di scegliersi un terreno preciso di lotta
all’interno del dispositivo francese, fanno minacce e ricatti. La
pseudo giustificazione addotta è che per esercitare un’influenza sull’opinione
pubblica francese bisogna condannare certi fatti, respingere le escrescenze
inaspettate, conservare le distanze di fronte agli “eccessi”. In questi momenti
di crisi, di scontro, si chiede al FLN di orientare la violenza, di renderla selettiva.”
Visto che
noi palestinesi facciamo fatica a formulare un pensiero politico complesso,
lascio che sia Fanon a parlare, perché sembra decifrare con precisione
l’atteggiamento di chi pretende di orientare il pensiero palestinese.
Sempre nelle
stesse pagine, il militante dell’FLN affronta una questione che nel caso
palestinese è spesso oggetto di dibattito: chi è il colono? Chi è l’occupante?
Qual è la differenza tra civile e militare?
“La
situazione coloniale è in primo luogo conquista militare ininterrotta e
rafforzata da una amministrazione civile e poliziesca. In Algeria, come in ogni
colonia, l’oppressore straniero si oppone all’autoctono perché ne
limita la dignità e costituisce una negazione della sua esistenza in quanto
nazione. La condizione dello straniero, del conquistatore, del francese in
Algeria è quella dell’oppressore. Il francese in Algeria non può essere
neutrale o innocente. In Algeria ogni francese opprime, disprezza,
domina. La sinistra francese, che non può restare indifferente e
impermeabile ai suoi stessi fantasmi, adotta in Algeria, nel periodo che
precede la guerra di liberazione, delle posizioni paradossali.”
Il sionismo
nasce come movimento coloniale che tra le sue fondamenta ha la negazione
dell’esistenza della nazione e del popolo palestinese e solo attraverso la sua
presenza militare e civile riesce dagli anni del mandato britannico ad oggi a
condurre il suo progetto di insediamento coloniale. Esistono quindi civili
israeliani in Palestina? Quel è stato il ruolo del trasferimento dei “civili”
in Palestina nel disegno del progetto coloniale? È responsabilità palestinese
la loro condizione futura o presente?
“Oggi ogni
francese in Algeria è un soldato nemico. Finchè l’Algeria non sarà
indipendente, questa conseguenza logica va accettata”
“L’algerino
patisce in blocco il colonialismo francese, non per schematismo o xenofobia,
perché, in realtà, ogni francese in Algeria ha con l’autoctono dei rapporti
basati sulla forza”.
Tale
rapporto di potere e forza è esemplare nel caso palestinese e lo possiamo
vedere anche in esempi semplici e vicini come nel caso della relazione tra due
i registi Basel Adra e Yuval Abraham, vicintori del premio Oscar per il
film-documentario “No Other Land”; nonostante il pubblico occidentale abbia
voluto celebrare l’amicizia perfetta, desiderata tra il buon palestinese il
buon israeliano, per le ragioni descritte qui sopra, tra le altre la volontà di
governare il discorso dell’oppresso e di mantenere in vita la legittimità
dell’oppressore, la relazione di potere esistente tra i due è chiara. Anche dal
punto di vista corporeo, basti osservare lo spazio occupato da Yuval durante la
cerimonia di conferimento dell’Oscar, una scena che non dimenticheremo
facilmente.
Leila Khaled
si, Anan Yaeesh no.
Da più di un
anno Anan Yaeesh, militante palestinese, si trova in prigione in Italia.
Accusato di terrorismo internazionale, Anan che da quando era un giovane
ragazzo di Tulkarem e ha deciso di prendere parte alla Resistenza durante gli
anni della Seconda Intifada. “Israele” l’ha imprigionato, torturato. Per questo
motivo in Italia, ad Anan, viene riconosciuta la protezione internazionale. E
per questi stessi motivi oggi si trova dietro le sbarre della democrazia
italiana. Dopo aver respinto la richiesta “israeliana” di estradizione, la
magistratura italiana lo accusa di terrorismo internazionale. Ma ad Anan non
vengono imputati reati commessi sul suolo italiano, ma viene accusato di aver
preso parte ad azioni di Resistenza in Palestina.
In questo
anno di prigionia, Anan ha scritto lettere dal carcere rivendicando con forza
il diritto del suo popolo ad alzare la testa, nei modi ritenuti legittimi e
utili alla lotta di liberazione. Non solo, Anan ha iniziato uno sciopero della
fame, in segno di protesta contro l’ingiusto processo nei confronti della
Resistenza palestinese; qualche giorno fa l’ultima notizia di un suo atto di
autolesionismo per chiedere il rispetto dei diritti basilari in carcere.
Ma tutti
tacciono su Anan. È sorprendente vedere come la maggior parte delle realtà in
“solidarietà” con la Palestina ha fatto orecchie da mercante quando si trattava
di chiedere a gran voce la sua liberazione e di rivendicare il diritto della
popolazione palestinese a resistere. A breve si concluderà il processo e,
ancora, di Anan non si parla. Dall’altro lato, però, sempre negli stessi
ambienti, non ci si astiene dall’utilizzare l’immaginario della Resistenza
palestinese, come nel caso del feticismo verso figure come Leila Khaled o della
venerazione delle combattenti curde dello YPJ, comprensibili grazie alla
riproduzione di un immaginario di femminilità vicino allo sguardo occidentale.
Continuando
la lettura delle pagine di Fanon in “Decolonizzazione e Indipendenza” il
discorso del militante dell’FLN sull’atteggiamento della sinistra francese non
comunista è interessante perché ci può aiutare a tracciare delle linee di
similitudine con lo sguardo che la sinistra occidentale oggi posa sulla
resistenza palestinese, soprattutto quando essa assume forme vicine all’islam
politico. La sinistra preferisce condizionare la solidarietà: imporre limiti,
giudicare, ricattare:
“barattare
il colonialismo francese con il «colonialismo» rosso o nasseriano gli sembra
un’operazione infruttuosa, perché, come essi affermano, in quest’epoca di
grandi blocchi si impone un allineamento e i loro consigli sono espliciti:
bisogna scegliere il blocco occidentale. Questa sinistra non comunista
di solito non si pronuncia quando noi cerchiamo di spiegarle che, per il
momento, il problema del popolo algerino è anzitutto di liberarsi dal giogo
colonialista francese. Rifiutando di mantenersi unicamente sul piano
della decolonizzazione e della liberazione nazionale, la sinistra francese non
comunista ci scongiura di abbinare i due sforzi: rifiutare il colonialismo francese
e il comunismo sovietico neutrale.”
E ancora:
“Dobbiamo
confessare che ci riesce insopportabile vedere dei francesi che credevamo amici
comportarsi con noi come dei mercanti e compiere questa specie di odioso
ricatto in cui la solidarietà vuole imporre fondamentali restrizioni ai nostri
obiettivi.”
E allora.
Scrivo
queste parole come augurio, affinché la sinistra nostrana si guardi allo
specchio e riconosca il proprio atteggiamento coloniale e quindi razzista.
Che smetta di riabilitare il pensiero anticoloniale solo quando serve a
ripulire la propria coscienza.
“Noi non
vogliamo mettere sotto accusa i democratici francesi, ma attirare la loro
attenzione su certi atteggiamenti che ci sembrano in contraddizione con i
principi dell’anticolonialismo.” La critica non risiede quindi in un mero senso
di frustrazione personale ma nell’auspicio che si possa guardare la situazione
palestinese attraverso i principi dell’anticolonialismo.
Concludo
riportando l’appello che FLN rivolse alla sinistra francese, come riflessione
sul ruolo dell’intellettuale impegnato, militante alcuni forse direbbero
organico nei progetti di liberazione nazionale dal colonialismo:
Il FLN si
rivolge alla sinistra francese, ai democratici francesi e chiede loro di
incoraggiare tutti gli scioperi intrapresi dal popolo francese contro l’aumento
del costo della vita, le nuove imposte, le restrizioni delle libertà
democratiche in Francia, conseguenze dirette della guerra in Algeria.
Il FLN
chiede alla sinistra francese di rafforzare la sua azione di informazione, di
seguitare a spiegare alle masse francesi le caratteristiche della lotta del
popolo algerino, i principi che l’animano, gli obiettivi della Rivoluzione.
Il FLN
rivolge un saluto ai francesi che hanno coraggiosamente rifiutato di prendere
le armi contro il popolo algerino e sono ora in carcere.
Tali esempi
devono moltiplicarsi perché sia chiaro a tutti, e in primo luogo al governo
francese, che il popolo francese rifiuta questa guerra fatta in suo nome contro
il diritto dei popoli, per mantenere l’oppressione, contro
L’avvento
della libertà.
NOTE
[1] Fanon F. (1971) Opere Scelte.
Decolonizzazione e Indipendenza. Violenza, spontaneità è un testo
pubblicato in italiano nel 1971 curato da Giovanni Pirelli e pubblicato da
Einaudi, una traduzione del testo originale uscito nel 1959 pubblicato da
François Maspero editore. Il testo a cui faccio riferimento qui è tratto da
vari articoli pubblicati sul «El Moudjahid» n. 13, 14 dicembre; n. 14, 15
dicembre; n. 15, 30 dicembre 1957. Ripubblicati in «Pour la Révolution
africaine». Gli scritti di «El Moudjahid. Organe Central du Front de Libération
Nationale»,
non portavano mai firme, essendo, o volendo essere espressione di elaborazione
collegiale. Dopo la morte di Fanon, per iniziativa dell’editore Maspero e con
la collaborazione di Josie Fanon e di alcuni ex redattori del giornale, furono
identificati (non senza incertezze e pareri discordi) quegli articoli la cui
stesura era attribuibile a Fanon. Essi furono pubblicati nella IV sezione di
Pour la Révolution africaine.
[2] con “sinistra” intendo sia gli
ambienti della sinistra istituzionale sia quelli di “movimento”, dai collettivi
agli spazi sociali che spesso sono stati i protagonisti di questo atteggiamento
censorio.
da
qui